Chi per propria sventura sappia di non essere all’altezza del mignolo sinistro di Conrad ma voglia con onestà narrare, non ha che da guardare la propria nazione, in diretta o nella memoria. Troverà infiniti spunti per intrecci e vicende di romanzo e nella propria identità nazionale un terreno fertile di immagini, modi di dire e costumi che colano e svelano una visione del mondo. La faccenda è complicata, in quest’epoca. L’appartenenza nazionale è doppia o tripla o quadrupla, quando non arricchita o sostituita da un’appartenenza ideologica (come il comunismo) che con atto volontario l’uomo assume a tribù dello spirito. Molteplici sono le radici di ognuno di noi. (p. 992)
Sergio AtzeniPassavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.
A parte la follia di ucciderci l'un l'altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piante e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l'un l'altro per motivi irrilevanti.
(pag. 56)
Carcerati cantano dietro le bocche di lupo alte sul colle: “Voglio la libertà, il mio avvocato al corno della forca e Marianna questa notte stessa”.
(pag. 31)
Ruggero parla a se stesso: “Fuggi. Dopo trentaquattro anni ti strappi alla terra dove hai amato, sofferto e fatto il buffone. Ogni angolo di strada testimonia una tua gioia, un dolore, una paura.
In cambio sarò libero. La maschera che mi cuciranno addosso, lo straniero, l’isolano, il mendicante, mi nasconderà, occulterà il nome, sarò uomo fra uomini… Chi è mite compatisce i persecutori, ne vede la fragilità, le ferite nascoste e non si lamenta del male che subisce.
Tu non sei mite. Ora soltanto hai percepito l’esistenza della mitezza. Perché vinto. Sei stato bestia, avida e feroce, finché avevi forza e te l’hanno permesso. Ora ti mascheri da esiliato, nascondendo il nome che per anni hai sventolato quasi fosse un merito.
Non ho mai colpito per cattiveria. Per noncuranza, magari, o per cecità.
Il nome sparisce, salva per un po’ la lapide in camposanto. E la vicenda presto è dimenticata, cancellata da nuove imprese di tonti e di campioni.”
(pagg. 30-31)
Cantavamo, morivamo, danzavamo di padre in figlio, crescendo di numero e di esperienza dell'isola. Eravamo felici.
(pag. 64)
Guarda i quartieri moderni fuori le mura scendere dai colli al mare oleoso e verde cupo, i bei palazzi e portici dei tempi di Baccaredda (scrittore e sindaco, amato e carogna) e il lascito architettonico di quest’epoca ai futuri: il cubo luttuoso e vitreo che nasconde i vicoli del porto e offende il municipio bianco e danzante cui si è affiancato con protervia da funzionario viceregio d’altri tempi (non è escluso che i futuri decidano di amarlo e cantarlo… o lo smonteranno vetrata per vetrata e lo sposteranno in campagna oltre Palli e invece delle nere geometrie che spengono la luce e l’allegria vedranno panchine, fontane, palme e jacarandas?).
Ruggero Gunale guarda la città che si allontana. Saluta torri pisane e campanili. Sillaba a se stesso: “La mitezza non incute rispetto né suscita vero compatimento. Anzi: godono a schiacciarti.”
(pag. 29)
Chiamavamo noi stessi s'ard, che nell'antica lingua significa danzatori delle stelle.
[...]
Non lasciavamo altre tracce che i nuraghe, le navi di bronzo di Urel di Mu e i piccoli uomini cornuti, guardiani dell'isola, che molti fecero imitando Mir. Nessuno sapeva leggere e scrivere. Passavamo sulla terra leggeri come acqua.
(pag. 65)
Cominciavo a intuire che la storia narrata era la storia delle donne e degli uomini che hanno vissuto prima di noi nell'isola dei danzatori, madri e padri forse a noi simili per dolcezza e sorrisi o per la follia che non sappiamo dove nasca.
(pag. 85)
Mille anni di guerra, disse Antonio Setzu. Questo furono per noi i romani, mille anni di guerra. Non quotidiana, per fortuna. Con pause anche lunghe di pace.
(pag. 97)
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