Ha importanza se erano di Kielce o Brno o Grodno o Brody o Lvov o Torino o Berlino? O che l'argenteria o una tovaglia di lino o la pentola di smalto scheggiata - quella con la striscia rossa, tramandata da una madre alla figlia - siano state usate in seguito da un vicino o da qualcuno che non hanno mai conosciuto? O se uno andava per primo o per ultimo; o se venivano separati salendo o scendendo dal treno; o se venivano presi da Atene o Amsterdam o Radom, da Parigi o Bordeaux, Roma o Trieste, da Parczew o Bialystok o Salonicco. Se sono stati strappati dai tavoli della sala da pranzo o dai letti d'ospedale o dalla foresta? Se le fedi nuziali sono state strappate dalle loro dita o le otturazioni dalle loro bocche? Niente di tutto questo mi ossessiona; ma... erano silenziosi o parlavano? I loro occhi erano aperti o chiusi?
Non riuscivo a distogliere la mia angoscia dal momento preciso della morte. Ero concentrato su quella frazione di secondo storico: il tableau dell'ossessionante trinità - carnefice, vittima, testimone.
Ma in quale momento il legno diventa pietra, la torba diventa carbone, il calcare diventa marmo? L'istante graduale.
